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L’universalità dell’amore

Sono giorni caldi, questi, per parlare di unioni tra persone dello stesso sesso, racchiuse nelle parole che sentiamo echeggiare ovunque in questi giorni, unioni civili. Sabato si terrà a Roma il terzo Family Day, oggi è cominciata in Senato la discussione sulla legge Cirinnà, e la prima votazione si terrà martedì 2 Febbraio.

Per combinazione, due giorni dopo escono il dvd ed il Bluray di Io e lei, con Sabrina Ferilli e Margherita Buy, una commedia leggera che prosegue il discorso sull’identità femminile iniziato da Maria Sole Tognazzi con Viaggio sola, grande successo del 2013, dove la Buy interpretava una donna decisa a difendere il suo diritto di non vivere in coppia, per forza. In Io e lei la coppia c’è, ma è una coppia che ancora oggi, in Italia dobbiamo chiamare atipica: quella tra due donne. Ancora più atipica, in questo caso, perché  Federica (Margherita Buy), fino a poco tempo prima, era una donna sposata, eterosessuale, e, per sua stessa ammissione, non vuole definirsi  “lesbica”. Ama Marina (Sabrina Ferilli), ma, forse per un retaggio culturale, per pudore, incertezza, o forse semplicemente perché sente che è così, non ha voglia di sbandierare la sua identità sessuale, sembra quasi vergognarsene, e questo ferisce la compagna, ex attrice di successo, abituata a parlare di sé al pubblico e a non temere il giudizio altrui. Nella loro convivenza di anni si insinua, quindi, un dubbio, una crepa, che finirà per avere il volto di un’altra persona e mettere in discussione il loro rapporto.

Io e lei è sì, naturalmente, un film che parla di omosessualità e di quanto l’amore tra persone dello stesso sesso sia ancora un tabù sociale in Italia, anche per chi si trova ad amare qualcuno che, tecnicamente (agli occhi della società, dei colleghi, e in questo caso anche dei figli) non “dovrebbe” amare. Ma è anche, più in generale, un discorso sullo status di coppia, che si riaggancia perfettamente al già citato lavoro precedente della Tognazzi, oltre ad un altro film potente che ha fatto e continua a far parlare molto di sé, The Lobster di Yorgos Lanthimos.  Ambientato in un mondo distopico dove la Coppia (eterosessuale) è l’unico legame sociale approvato, (oltre una certa età, se non si è trovato l’anima gemella, si è considerati inadatti all’esistenza e tramutati in animali) The Lobster (l’aragosta, questa la bizzarra scelta del personaggio di Colin Farrel) è un apologo per certi versi agghiacciante sull’esasperazione di una pratica sociale che gli uomini hanno adottato nei secoli, che sembra, nel film di Lanthimos, essersi cristallizzata nella sua forma più asettica, legale. Trovarsi, nel senso anche di identità fisica, di tic, difetti, manie, è la cosa essenziale a cui la Struttura dove i reduci single sono rinchiusi invita i suoi ospiti. Il sentimento è un optional.  Non è invece un optional per i ribelli, i Solitari,  coloro che dal Sistema sono fuggiti e che vivono allo stato brado, nei boschi: essi rifiutano lo Status della Coppia e insieme a questo, l’Amore. Quando il protagonista fugge lo fa per non diventare un animale, ma non avrebbe mai immaginato di innamorarsi proprio quando non gli è più permesso.

La coppia come diritto, scelta, oppure obbligo, quindi. Tornando alle unioni tra persone dello stesso sesso, e  alla richiesta di un’accettazione sociale che queste presuppongono, il cinema ha iniziato ad interrogarsi sul tema quando più in generale si iniziava a parlare di diritti in senso lato: dei lavoratori, delle donne, dell’amore libero e quindi anche omosessuale. Uno dei primi registi a trattare il tema nel cinema mainstream e non puramente underground (un discorso a parte, infatti, andrebbe fatto sui vari Andy Wharol, Paul Morrissey, lo stesso Derek Jarman) è stato l’inglese John Schlesinger (oltretutto uno dei maggiori registi inglesi che si sono affermati a Hollywood): film come Darling (1965) e Domenica, maledetta domenica (1971) sono pionieri in questo senso nel ritrarre amori diversi nella in una Swinging London tutt’altro che spensierata (a differenza di quello che faceva negli stessi anni, ad esempio, Richard Lester) dove l’ipocrisia di una visione ancora del tutto “borghese” della coppia e dell’amore vince su tutto.

Se Dino Risi nel 1970 parlava dell’amore libero (e anche gay) nello scanzonato Il giovane normale, è del 1969 un titolo molto avanti sui tempi, Le altre (per la regia di Alex Fallay), che, pur inserendosi nel filone del genere sexy exploitation, affronta temi attuali ancora oggi: le due belle e disinibite protagoniste (Monica Strebel e Erna Schurer) vivono felicemente la loro omosessualità, avvertendo solo la mancanza di un figlio, e si scelgono un uomo da cui farsi fecondare: uomo che porta crisi nella loro coppia.

In generale, nel cinema italiano, dobbiamo al recentemente scomparso Ettore Scola uno dei ritratti più vividi del disagio umano e sociale che lo stigma dell’ omosessuale può portare nella vita di un uomo in Una giornata particolare (1977): il personaggio di Gabriele (Marcello Mastroianni), ex giornalista ripudiato dal fascismo, confessa disperatamente la sua anti-socialità ad Antonietta (Sophia Loren),  quando,  afferma: “ Io non sono né marito, né padre, né soldato.”

Dell’omosessualità si può ridere, anche, come nella geniale saga di Edouard Molinaro con Ugo Tognazzi e Michel Serrault, Il vizietto e Il vizietto II (ed il terzo episodio Matrimonio con vizietto – Il vizietto 3 di George Lautner del 1985) o come nell’atipica commedia di Alessandro Benvenuti Belle al bar (1994), con la transgender Eva Robin’s.  Se negli anni ’80 abbiamo l’exploit di Pedro Almodovar in Spagna e la piaga dell’AIDS dilagante, che spinge Hollywood a realizzare un film fondamentale come Philadelphia (di Jonathan Demme, 1994),  a partire dagli anni 2000 il tema è sdoganato, anche grazie all’avanzamento del movimento a favore dei diritti di gay e delle leggi in alcuni paesi: autori come Ferzan Ozpeteck contribuiscono a portare l’amore altro nel cinema italiano di successo con opere come Le fate ignoranti e i film a seguire, commedie come Reinas (2005) e Baby Love (2008)  inseriscono i temi dei diritti negati oppure ottenuti sempre nell’ambito della commedia, ed il trand continua con un titolo recente che racconta la vera storia dell’unione di gay e minatori  per una lotta comune, Pride di Matthew Warchus (2014).

Siamo nel 2016 e i rapporti tra persone dello stesso sesso dovrebbero essere oramai cosa acquisita, nella realtà come al cinema. Ma un film che mostra immagini “forti” come Lo sconosciuto del lago, un noir francese ambientato in un luogo di incontro per gay, disturba ancora molto per le sue scene esplicite, La vita di Adele, di Abtellatif Kechiche fa scandalo a Cannes e fa parlare di mobbing da parte del regista, che ha chiesto troppo realismo alle sue protagoniste.  Documentari come Non so perché ti odio, tentativo di indagine sull’omofobia di Fabio Soldati, e Gesù è morto per i peccati degli altri, di Maria Arena, che racconta cosa succede ancora oggi nella contemporanea Sicilia (Quartiere San Berillo Catania, per la precisione) raccontano un dibattito ancora aperto. E come può il cinema sottrarsi? Si torna al passato, e Todd Haynes dirige Carol (candidate gli Oscar entrambe le protagoniste, Cate Blanchett e Rooney Mara),  che, partendo dal romanzo The price of salt (conosciuto anche come Carol) della scrittrice americana Patricia Highsmith (1952) realizza un film in costume perfetto, stilisticamente ineccepibile e, nel raccontare l’amore scandaloso tra due donne, di una delicatezza sconvolgente, dicendoci oggi, nel 2016, appunto, che l’amore è Universale, e che il cinema, e l’arte in genere, non può che raccontarlo, in tutte le sue forme.

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