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Jean-Paul Belmondo, o Bèbel

Se pensiamo a Bèbel (soprannome nato dalla storpiatura di Pepé, come lo chiamavano gli amici in onore al personaggio di Jean Gabin ne Il bandito della Casbah) ci viene in mente la sua solita espressione tra il beffardo ed il trasognato, quell’apparente noncuranza innocente e maliziosa che ha caratterizzato la sua immagine in 60 anni di carriera. Fumetto nella vita, maschera a teatro (René Clair sentenziò: “Belmondo ha buone qualità come attore di teatro, ma non è adatto al cinema.”, ma letta oggi suona come l’opinione dei fratelli Lumiere sul cinematografo), e pugile dal viso segnato al cinema (lanciato da Jean-Luc Godard, che lo volle nel suo esordio Fino all’ultimo respiro dopo averlo visto in Una strana domenica di Marc Allegret, ma aveva preso parte, giovanissimo, anche a Peccatori in blue jeans di Marcel Carné), Belmondo è arrivato ha alle spalle un percorso nel teatro e nel cinema francese che lo rende oggi l’icona di uno dei periodi più fecondi della nostra cultura e della settima arte.

Nonostante avesse già interpretato qualche film di rilievo (due titoli su tutti, bellissimi, in Italia: La ciociara di Vittorio De Sica, al fianco di Sophia Loren e La viaccia, di Mauro Bolognini, insieme a Claudia Cardinale), è stato il padre della Nouvelle Vague, dicevamo, a lanciarlo volendolo in quel film germinale che è Fino all’ultimo respiro: nei panni di Michel Poiccard e ripreso dallo sguardo geniale di Godard (“L’ho visto come una specie di blocco che bisognava filmare per poter sapere quello che c’era dentro”) Belmondo risplende fin da subito sullo schermo e codifica la mappatura tutta fisica della sua mimica attoriale. Labbra carnose e dita ossute a tormentarle, occhio a mezz’asta, sigaretta pendula e quell’irresistibile atteggiamento di sfida noncurante: in un attimo l’icona si è composta di fronte a noi e nessuno potrà più farne a meno. Belmondo naviga nel cinema d’autore ancora un po’, prediligendo i ruoli da criminale bello e dannato (Claude Sautet lo vorrà in Asfalto che scotta, dove affiancherà, senza sfigurare, il mito Lino Ventura, Jean-Pierre Melville lo dirigerà in Léon Morin, prete e ne Lo spione, Truffaut ne La mia droga si chiama Julie), ma presto capisce che non può spingere su quel tasto per sempre. A partire dal 1965 con Philippe De Broca  (L’uomo di Rio L’uomo di Hong Kong, sul set del quale conobbe Ursula Andress, al quale fu legato dal 1966 al 1972) diventa leader di un cinema che risalta ancora di più la componente naturalmente fisica della sua recitazione (Un avventuriero a Tahiti, Criminal face – Storia di un criminale). Nel 1974 è diretto da Alain Resnais in Stavinsky, il grande truffatore, dove interpreta il famoso finanziere truffatore francese. Anche pugile per un periodo che gli ha regalato un naso non proprio alla francese, Belmondo si è sempre vantato di non aver mai voluto controfigure nei ruoli di azione (tanto che in Come si distrugge la reputazione del più grande agente speciale del mondo si ruppe anche una gamba): completamente a suo agio a cavallo del poliziesco si confronterà direttamente con l’uomo al quale lo lega un destino comune e un’amicizia longeva e chiaccherata, Alain Delon ( “La verità è che siamo grandi amici. È la stampa ha montato un caso. Ma siamo sempre stati amici, nel bene e nel male.”) ne Il borsalino di Jacques Deray (i due reciteranno a fianco anche da sessantenni in Uno dei due di Patrice Leconte nel 1998). Vicino all’Italia anche per l’origine (suo padre, lo scultore Paul Belmondo, aveva genitori italiani), su due set in Italia si innamorerà di Ursula Andress (durante le riprese de L’uomo di Hong Kong)

 

 e di Laura Antonelli (il film galeotto su Trappola per un lupo di Claude Chabrol), alla quale fu legato fino al 1980 (ma Belmondo non sposò e non ebbe figli con nessuna delle due. Ne ha avuti invece tre dalla prima moglie, la ballerina Élodie Constantin e una figlia dalla seconda, Natty Tardivel).

Dal 1987 Belmondo è tornato a prediligere la scena teatrale, ma non ha abbandonato l’amore per il cinema. Dopo la lunga convalescenza seguita ad un ictus, si è rimesso in gioco con un remake di Umberto D, Un homme et son chien di Francis Huster nel 2008.

 Claudia Cardinale, che ha lavorato al suo fianco ne La viacciae non solo, ha raccontato di lui:

“Lui è uno dei pochissimi miei compagni di lavoro con il quale ho vissuto anche un piccolo amore, molto breve, per niente pubblicizzato. […] La lavorazione di Cartouche, scene d’amore comprese, è stata tutta una follia. Lui, Belmondo, un altro matto vero […] improvvisava giochi e scherzi in continuazione: sul set e fuori.” 

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