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Speciale Akira Kurosawa

Un poeta delle immagini, un profeta di una rivoluzione cinematografica che ha avuto origine molto lontano da noi. Come primo, grande merito, ad Akira Kurosawa va quello di aver aperto al cinema giapponese le porte dell’Occidente, a partire dall’inatteso Leone d’Oro ricevuto nel 1951 alla Mostra del cinema di Venezia per il suo capolavoro, Rashomon, che ha dato il via ad una stagione di importanti riconoscimenti europei al cinema orientale e allo stesso regista. Nato a Tokyo il 23 Marzo del 1910, Kurosawa appartiene a quella generazione di autori che, nel secondo dopoguerra, si sono dedicati al cinema secondo una prospettiva umanistica,  concentrandosi sul personaggio in quanto essere umano al centro di uno o più conflitti, in lotta contro il mondo e la propria società. Regista di figure maschili più che femminili, egli tratteggia nei suoi film personalità complesse, spesso in bilico tra giudizio e irrazionalità, e, sempre in controtendenza rispetto a molti suoi colleghi, prediligendo  forme di narrazione spettacolare, frutto della sua conoscenza e ammirazione nei confronti del cinema americano classico. D’altra parte rimane evidente la continua influenza dell’estetica tradizionale giapponese, sia del teatro no , da cui riprende alcuni effetti di stilizzazione nella recitazione e nella narrazione ellittica, sia del teatro kabuki, al quale si ispira per le atmosfere espressioniste e gli elementi comico-picareschi inseriti nelle sue opere.

Formatosi come pittore e dopo anni come illustratore per alcune riviste popolari, Kurosawa si avvicina al cinema nel 1936, iniziando a lavorare per la casa di produzione PCL come assistente di Yamamoto Kajiro. Il suo debutto dietro la macchina da presa risale al 1943 con Sugata Sanshirō, al quale seguirà il sequel Zogu Sugata Sanshirō, due opere che rievocano le origini delle arti marziali e sono comunque influenzate, come il successivo Ichiban utsukushiku (1944, La più bella), al periodo di guerra durante il quale sono state concepite e alle necessità della politica nazionale (come l’esaltazione della fedeltà, dello spirito di sacrificio e di senso del gruppo), ma nelle quali già vediamo in atto quella dialettica tra stasi e movimento che farà la grandezza di tutto il suo cinema. Fu comunque dopo la guerra che Kurosawa riuscì ad esprimersi più liberamente con opere più personali come Yoidore tenshi (1948, L’angelo ubriaco) (appena uscito in versione restaurata in dvd Sinister Film), che coniuga sapientemente neorealismo ed espressionismo raccontando una storia di degrado e miseria a Tokyo attraverso  l’amicizia di un anziano dottore con uno yakuza malato di tubercolosi. Questo film sancisce anche l’incontro con Mifune Toshiro, il grande attore che da qui in avanti sarà legato al regista e protagonista delle sue opere migliori.

In seguito Kurosawa dirige Shubun (Scandalo), un film – denuncia contro il potere della stampa scandalistica ambientato nel Giappone contemporaneo, e Shizukanaru ketto (Il duello silenzioso, 1949), tratto dal romanzo omonimo di Kazuo Kikuta, che narra la storia di un medico che, avendo contratto la sifilide, rinuncia a sposare la donna amata e si dedica alla cura dei malati.   Il 1950, invece, è  l’anno del capolavoro, Rashōmon, tratto da due racconti di Akutagawa Ryūnosuke, la storia di un omicidio di un samurai raccontata più volte attraverso gli occhi di coloro che hanno partecipato al fatto o ne sono stati testimoni e con il quale Kurosawa abbandona la prospettiva realistica che aveva predominato per adesso nei suoi film ed il genere gendaigeki, per dedicarsi ad un genere, il jidaigeki (film in costume), allora molto in voga in Giappone.  Nel 1951 Kurosawa realizzò Hakuchi (1951, L’idiota), tratto dal celebre romanzo di Dostoevskij ma ambientato nell’immediato dopoguerra e adattato alla realtà nipponica. Ed è sempre da L’idiota  che potremmo trarre la chiosa per il suo film successivo, Vivere (1952): “Se potessi non morire, se la mia vita mi fosse restituita, che eternità si aprirebbe davanti a me! Trasformerei ogni minuto in un secolo di vita…” Questi i sentimenti di un condannato a morte, ed il senso di Vivere, storia di Watanabe, che si scopre malato terminale e si aggrappa alla vita come può, con i mezzi che ha, è proprio questo: si scopre il vero valore dell’esistenza solo quando è troppo tardi. Il film è un concentrato di segni e significati, come ha scritto Aldo Tassone : ” Lirismo e satira, grazia e crudeltà […] realismo, onirismo ed espressionismo […] si fondono in una sintesi prodigiosa. Uno dei miracoli di questo “Citizen Watanabe” è che riesce a trattare la malattia senza deprimerci, comunicandoci una forsennata voglia di vivere.”

Dopo questa incursione nell’animo umano, Kurosawa torna al genere jidaigeki con una grossa produzione e il suo film di maggior successo in assoluto,  Shichinin no samurai (I sette samurai, 1954), la storia un gruppo di samurai che sceglie di difendere un villaggio contadino da una banda di briganti. Il successo del film fu tale che gli americani ne girarono un remake western con The magnificent seven (1960) di John Sturges.

Nel 1962 Kurosawa dirige Tateshi Danpei, 1962, che narra le vicende di un celebre maestro di scherma che negli anni ’10 cerca di sopravvivere ai cambiamenti della società mettendo la sua arte al servizio delle compagnie teatrali, e, in  generale alterna per tutti gli anni ’60 film di genere ambientati nel presente, come il noir poliziesco Anatomia di un rapimento (1963), (novità in dvd Sinister Film) e  film di samurai, come il celebre Yojimbo (La sfida dei Samurai, 1961), che sarà addirittura plagiato in chiave western da Sergio Leone con il suo Per un pugno di dollari. In seguito Kurosawa ruppe con Mifune e fondò una nuova casa di produzione, ma l’insuccesso in patria di un film come Dodesukaden (1970) lo costrinse a cercare i finanziamenti per i suoi film successivi fuori dal suo paese.

Realizzò così Dersu Uzala (1975), girato in Unione Sovietica ed ambientato in Siberia sulla vita di un solitario cacciatore mongolo (Oscar per Miglior Film Straniero), Ran (1985), adattamento dal Re Lear di Shakespeare eKonna yume o mita (1990, Sogni), film ad episodi dove affronta le sue personali ossessioni (come la paura dell’ignoto, la bomba atomica) e che viene distribuito negli Usa da Spielberg avvalendosi anche degli effetti speciali della società di Lucas ( in uno degli episodi appare anche Martin Scorsese nei panni di Van Gogh).

Kurosawa finisce la sua carriera con un’opera intimista: il suo ultimo film, Madadayo (Madadayo – Il compleanno, 1993), rievoca la vita di un anziano professore alla fine dei suoi giorni; il maestro Kurosawa, oramai più che ottuagenario, torna al realismo preannunciando in maniera autobiografica la sua scomparsa che avverrà 5 anni più tardi.

“Sogni, Rapsodia d’agosto, Madadayo – i miei ultimi film – cercano di parlare in maniera sommessa al cuore dell’uomo: il rispetto (dell’altro, della natura), la gentilezza, la comprensione reciproca, la riconoscenza, l’amicizia, l’umanità insomma, sono la cosa più importante per l’uomo.Se sono riuscito a comunicare questi sentimenti sono felice.” 

Le dichiarazioni di Akira Kurosawa e di Aldo Tassone sono tratte da Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro Cinema, 2001.

Ecco una clip dal documentario Kurosawa e Ikiru negli extra del dvd Sinister Film di Vivere.

                                                                                                             

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