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Ernst Lubitsch: 125 anni dalla nascita e 70 dalla morte

Per molti anni Ernst Lubitsch è stato trascurato dalla critica ufficiale, che ha iniziato a rivalutarlo solo dopo la sua morte (si racconta che al suo funerale  Billy Wilder abbia esclamato con tristezza “Niente più Lubitsch” e William Wyler, accanto a lui, gli abbia risposto: “E’ peggio di così. Niente più film di Lubitsch”) e la stessa Hollywood, che è stata la sua patria per tutta la vita, lo ha onorato con un Oscar alla carriera soltanto l’anno della sua scomparsa, il 1947. Chi lo ha ammirato fin dall’inizio sono stati soprattuttoi suoi colleghi registi, che da subito hanno colto l’essenza del suo stile inimitabile,  qualcosa di unico e di squisitamente cinematografico, un misto di humor allusivo, ritmo incalzante della narrazione, scenografie impeccabili ed un retrogusto amaro, quasi una sorta di mesta ed intelligente rassegnazione ai limiti e alla natura transitoria di ogni esperienza umana. E’ quel famoso “Lubitsch touch – tocco alla Lubitsch” che lo ha reso celebre in tutto il mondo, espressione coniata, appunto, dallo stesso Billy Wilder. Un tocco magico che ha reso possibile un’ulteriore magia: riportare in sala dopo più di 70 anni un  suo capolavoro, e ottenere un grandissimo successo di pubblico. L’uscita nelle sale italiane nel 2013 grazie a Teodora Film di To be or not to be – Vogliamo vivere, film del 1942 realizzato in piena seconda guerra mondiale, ha dimostrato che un film perfetto non invecchia mai, e che il talento di un regista come Lubtisch è veramente intramontabile. Ma facciamo un salto indietro, e ripercorriamo insieme l’incredibile carriera di questo autentico maestro del cinema mondiale. Nato a Berlino da famiglia ebraica nel 1892, Ernst Lubitsch abbandona presto gli studi per dedicarsi completamente al teatro, diretto dal grande Max Reindhart. Grazie a lui, si appassiona al cinema e comincia a dirigere se stesso in alcune commedie farsesche, sviluppando sempre più quel gusto scenografico e stilistico che diventerà  famoso in tutto il mondo come Lubitsch touch – tocco alla Lubitsch, un mix calibrato di umorismo e sensualità nelle sue commedie sofisticate. Uno dei film che per primi rivela il suo grande talento in evoluzione è Lo scoiattolo (1921) con Pola Negri, una divertente farsa militare che in realtà fu poco amata dal pubblico tedesco, ancora scosso dalla recente sconfitta della Prima Guerra Mondiale.

Dopo il successo del suo Madame du Barry, con un’eccezionale Emil Jannings, nel 1922 Mary Pickford chiama Lubitsch a Hollywood a dirigerla in Rosita: è così che ha inizio la prolifica carriera americana del regista, che lo porterà a dirigere le più grandi dive dell’epoca, da Marlene Dietrich a Greta Garbo, da Carole Lombard a Miriam Hopkins. Dopo Rosita, Lubitsch gira Matrimonio in quattro (1924), una commedia di intrecci amorosi con Adolphe Menjou, considerata una delle sue opere più riuscite del periodo del muto, insieme a Il ventaglio di Lady Widemare (1925), da un’opera di Oscar Wilde, un dramma sul sospetto e il tradimento. Eternal love (1929), ambientato nella Svizzera dell’800, è una leggiadra storia d’amore tra un pastore ed una donna altolocata. Ma è con l’avvento del sonoro che Lubitsch raggiungerà il punto più elevato della sua arte, arrivando a dirigere negli anni ’30 molti dei suoi capolavori: Mancia competente (1932), una storia di ladri e di alberghi di lusso dove il ritmo serrato è tenuto in piedi dai dialoghi scoppiettanti, Se avessi un milione (1932) il primo film ad episodi della storia del cinema americano (diretto da vari registi sotto la sua supervisione), Un’ora d’amore, co-diretto con George Cukor, e Partita a quattro (1933) con Gary Cooper e Miriam Hopkins. In Angelo (1937) Lubitsch dirige un’algida e misteriosa Marlene Dietrich, mentre ne L’ottava moglie di Barbablù (1938) costruisce una vorticosa girandola farsesca ormai tipica del suo ‘tocco’. Dopo Ninotchka, dove, come recitava il manifesto dell’epoca, riesce a far ridere Greta Garbo (Garbo laughs),  Ernst Lubitsch dirige Vogliamo Vivere!, parodia in chiave di farsa con Carole Lombard e Jack Benny, dove il nostro in cui si prende gioco niente meno che di Hitler. Siamo in piena seconda guerra mondiale, e l’uscita di un film del genere spiazzò pubblico e critica: troppo frivolo per molti, inadatto alla situazione drammatica che la popolazione europea stava vivendo a causa degli orrori del nazismo. Il film ha come protagonisti Joseph e Maria Tura, capocomici di una compagnia teatrale polacca dopo l’occupazione tedesca del 1939. Quando il tenente Sobinski, spasimante di Maria, chiede loro aiuto per la causa della Resistenza, il talento dell’intera compagnia finisce al servizio di un esilarante e sempre più rischioso complotto antinazista fatto di travestimenti e scambi di persona. Il tempo ha dato ragione a Ernst Lubitsch rivelando To be or not to be per quello che veramente è; una commedia strepitosa con tempi comici perfetti, che combatte il nazismo con le uniche armi che un artista può utilizzare: quelle della finzione scenica, e della confusione che si può creare tra questa e la realtà. Insieme a Il grande dittatore di Charlie Chaplin (1940), Vogliamo vivere! è il solo vero film che il cinema americano ha dedicato alla minaccia di Hitler. Il suo ultimo film girato per intero, Fra le sue braccia (1946), (La signora in ermellino fu terminato da Otto Preminger dopo che Lubitsch morì colto da un infarto improvviso), è un trionfo del suo stile garbato e frizzante, ma getta anche, in filigrana,  uno sguardo disincantato sul mondo, come gran parte delle sue opere.

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