Con la scomparsa di James Foley, avvenuta all’età di 71 anni, si chiude una delle traiettorie più silenziosamente coerenti del cinema e della televisione statunitense degli ultimi quarant’anni. Regista dal profilo basso ma dallo sguardo acuto, Foley ha attraversato il cinema americano muovendosi tra i generi – dal dramma sociale al thriller psicologico – senza mai perdere il suo centro: una profonda attenzione per i meccanismi del potere, la vulnerabilità dell’individuo e la tensione costante tra verità e menzogna.
Un autore dallo sguardo preciso
Nato nel 1953, James Foley esordisce negli anni ’80 con Reckless (1984), ma è con Americani (Glengarry Glen Ross, 1992) che il suo nome entra di diritto nel panorama del grande cinema. L’adattamento dell’opera di David Mamet è ancora oggi uno dei più potenti affreschi cinematografici sul mondo del lavoro, sostenuto da un cast stellare e da una regia invisibile ma ferma, che lascia spazio alle parole e ai silenzi. In quel film già si vedono le costanti foleyane: lo spazio chiuso come campo di battaglia morale, il dialogo come strumento di dominio, la disperazione come motore dell’azione.
La solitudine nei margini
Alcuni dei lavori più sottovalutati di Foley sono proprio quelli in cui il regista mette in scena personaggi ai margini, in cerca di redenzione o semplicemente di ascolto. È il caso di Un giorno da ricordare (1995), piccolo gioiello ambientato durante la Grande Depressione, in cui un ragazzino cerca disperatamente pochi spiccioli per andare al cinema. È un film che riflette sulla povertà, sul desiderio e sulla memoria, tratteggiato con delicatezza e pudore.
Similmente, L’ultimo appello (1996), tratto da Grisham, si muove tra le pieghe della giustizia e della colpa ereditaria. Gene Hackman e Chris O’Donnell interpretano due generazioni in conflitto, legate da un crimine razzista e dalla possibilità – forse impossibile – del perdono. Qui Foley affronta il tema della pena di morte con uno sguardo che non cerca soluzioni facili, ma interroga lo spettatore con fermezza morale.
L’ambiguità del presente
Con Perfect Stranger (2007), il regista si confronta con l’era digitale, le identità fluttuanti e la sorveglianza diffusa. Il thriller, interpretato da Halle Berry e Bruce Willis, non è tra i suoi film più celebrati, ma resta significativo per come anticipa molte delle ansie contemporanee legate all’invisibilità e alla manipolazione dell’immagine.
Più recente è il suo impegno nella regia di due capitoli della saga di Cinquanta sfumature (Cinquanta sfumature di nero, 2017, e Cinquanta sfumature di rosso, 2018), prodotti di grande successo commerciale. Foley dirige con professionalità, mantenendo un controllo visivo che evita l’eccesso gratuito e cerca, pur nei limiti del materiale, una coerenza narrativa.
Il volto del potere in TV
Ma forse il lavoro più incisivo dell’ultima fase della sua carriera è televisivo. In House of Cards, serie cardine della nuova “età dell’oro” della TV, Foley dirige alcuni degli episodi più memorabili, contribuendo a costruire il tono cupo e razionale della narrazione. La sua regia qui è chirurgica: controlla gli spazi, i gesti, la luce. Ogni scelta stilistica diventa una dichiarazione di potere, di controllo, di manipolazione.
Un’eredità sottile, ma duratura
James Foley non è stato un regista da copertina. Non ha costruito un culto intorno al proprio nome, non ha avuto un’estetica facilmente riconoscibile. Ma proprio in questa discrezione si trova la sua forza: Foley è stato un narratore rigoroso, un regista che ha saputo attraversare i decenni senza perdere la propria onestà intellettuale.
I suoi film – anche quelli meno celebrati – pongono domande morali, interrogano le strutture del potere, scavano nella vulnerabilità dei personaggi. La sua scomparsa è una perdita per il cinema che pensa, per la televisione che osa, e per tutti coloro che credono ancora nella forza sottile di una buona regia.