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Jean-Luc Godard – Il cinema come questione aperta

Jean-Luc Godard: Il Cinema come questione aperta

L’opera di Jean-Luc Godard  non è semplicemente un capitolo della storia del cinema, ma una storia parallela, un’incessante messa in discussione del medium stesso. Figura cardinale della Nouvelle Vague e iconoclasta perenne, Godard ha infranto le convenzioni narrative per trasformare lo schermo in un campo di battaglia filosofico e politico, dove l’immagine non è mai data per scontata.

La decostruzione e l’esordio folgorante

Il debutto con Fino all’ultimo respiro (1960) fu un manifesto: con il suo uso spregiudicato del jump cut e la fusione di cultura alta e mélo americano, Godard non solo modernizzò il linguaggio cinematografico, ma ne dichiarò l’artificialità. Tuttavia, la sua traiettoria non si fermò all’energia pop dei primi anni, evolvendo rapidamente in una riflessione sulla rappresentazione, sull’amore e sulla sua mercificazione.

Una delle sue prime grandi meditazioni sulla frattura tra arte e commercio è Il disprezzo (1963). Ambientato nel maestoso scenario di Capri e dominato dalla presenza di Brigitte Bardot e Michel Piccoli, il film è una stratificata analisi del processo creativo e del fallimento comunicativo, riflettendo apertamente sulle difficoltà del fare cinema nell’industria, simboleggiate dalla figura del produttore Jeremy Prokosch. La pellicola è una dolorosa elegia sulla perdita, sia dell’amore che della purezza artistica, ambientata nel contesto della rilettura dell’Odissea.

La satira e la politica del linguaggio

Negli anni successivi, Godard intensificò la sua indagine sulla società contemporanea e sul linguaggio. In Agente Lemmy Caution – Missione Alphaville (1965), il regista ibrida fantascienza noir con l’analisi strutturale, dipingendo un futuro distopico dove la logica e la repressione emotiva hanno estirpato la poesia. Il film è un potente atto d’accusa contro la tecnocrazia e l’alienazione del mondo moderno, un saggio sulla necessità della parola, del sentimento e dell’arte per sfuggire alla barbarie.

Il rapporto tra sessualità, capitalismo e la gioventù emerge prepotentemente in Il maschio e la femmina (1966). Presentato come “i figli di Marx e della Coca-Cola”, il film cattura lo spirito della generazione pre-Sessantotto con una serie di interviste e scene che analizzano i sogni, le frustrazioni e le incertezze dei giovani parigini. Questa indagine sociologica trova la sua espressione più cruda e diretta in Due o tre cose che so di lei (1967), un’opera fondamentale che mescola documentario e finzione per esplorare la vita delle donne che si prostituiscono a Parigi. Il film è un vero e proprio saggio sul capitalismo e la sua capacità di rendere merce ogni cosa.

L’Era Post-Sessantotto e l’eredità 

Dopo il 1968, Godard abbandonò la narrazione tradizionale per abbracciare un cinema esplicitamente politico e collettivo, fondando il Gruppo Dziga Vertov con Jean-Pierre Gorin e altri. In questo periodo, il cinema viene spogliato di ogni seduzione borghese per diventare uno strumento didattico e di analisi ideologica. Ne è un esempio paradigmatico Vento dell’est (Le Vent d’est, 1970). Concepito inizialmente come un “western marxista,” si trasforma in un film-saggio radicale che decostruisce il linguaggio cinematografico per interrogarne l’urgenza e la necessità rivoluzionaria. Il film nega esplicitamente la trama a favore di una riflessione teorica, dove l’immagine e il suono diventano materiali dialettici.

Godard ci ha lasciato non una collezione di storie, ma un metodo: il cinema non è rappresentazione fedele, ma problematizzazione della realtà. Il suo lavoro ci costringe a essere spettatori attivi, a dubitare di ciò che vediamo e a riconoscere che il cinema, come la vita, è una “questione aperta” che non ammette risposte definitive.

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