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Addio a Udo Kier: un sorriso sardonico e un brivido lungo la schiena

Un’ombra si allunga sul sipario del cinema d’autore e di genere: la notizia della scomparsa di Udo Kier, a ottantuno anni, segna la fine della parabola terrena di uno degli attori più eclettici e memorabili del Novecento e oltre. Non è azzardato definirlo un volto-feticcio, una maschera tragica e grottesca, perfetta incarnazione di un’inquietudine nord-europea e di un fascino ambiguo che lo ha reso musa di registi visionari, da Fassbinder a Gus Van Sant, e, soprattutto, a Lars von Trier.

L’attore tedesco non è mai stato l’eroe solare, ma il suo campo d’azione era la zona d’ombra, il regno del perturbante e della perversione estetica. Ne è prova lampante la sua interpretazione di Giasone in Medea (1988) di Von Trier, film per la televisione che raccoglie l’eredità spirituale del mai realizzato progetto di Carl Theodor Dreyer. In questa rilettura della tragedia di Euripide, Kier presta il suo corpo allampanato e la sua espressione tormentata all’uomo che scatena la furia omicida dell’eroina, in un dramma girato con una fotografia livida e spietata, anticipando il sodalizio che legherà i due artisti per decenni.

Ma la sua iconicità affonda le radici negli anni Settanta, in quel cinema bis, horror e d’exploitation che, con il tempo, è stato rivalutato come espressione di una controcultura cinematografica. In Blood for Dracula (1974) di Paul Morrissey, Kier dona al Conte un’aura di patetica decadenza: un vampiro malato, in cerca disperata di sangue di vergine nell’Italia cattolica e, suo malgrado, poco casta. È un Dracula anemicamente ironico, che muore di sete nel suo esilio aristocratico, un capolavoro kitsch e camp che lo consacra come icona del cult cinematografico. Nello stesso periodo, Kier non si sottrae a progetti audaci come Histoire d’O (1975), trasposizione del controverso romanzo erotico di Pauline Réage, dove la sua presenza contribuisce a definire un mondo di sottomissione e desiderio come puro, distaccato rituale.

La sua carriera è una vera e propria geografia dell’estremo, che lo vede poi tornare a solcare le vie del cinema d’autore con progetti saggistici sulla storia del mezzo, come I fratelli Skladanowski (1995) di Wim Wenders. Qui, Kier partecipa alla ricostruzione della vicenda dei pionieri tedeschi che sfidarono i Lumière, in un’opera ibrida che mescola finzione e documentario, omaggio alla genesi stessa della settima arte.

In anni più recenti, la sua inconfondibile presenza ha continuato a illuminare film di stampo assai diverso, dimostrando la sua trasversalità di attore-carattere.

Tuttavia, il suo eclettismo non si limita a rivisitazioni storiche, ma si estende alla rilettura dei miti classici in chiave contemporanea, come nel caso di Ulysses: A Dark Odyssey (2018), un action-thriller che sposta l’Odissea omerica in una cupa Torino moderna. In questo film, Kier interpreta Alcyde, un nome che echeggia l’eroe greco, calandosi in una dimensione di noir metropolitano e dramma bellico.

Lo ritroviamo come attore di culto nel neo-noir iperviolento Dragged Across Concrete (2018) di S. Craig Zahler, dove il suo ruolo di Friedrich è un cameo di spietata e glaciale efficacia, un tassello necessario per la macabra quadratura del cerchio criminale. Parallelamente, offre un’altra sfumatura della sua arte in American Animals (2018) di Bart Layton, un ibrido tra heist movie e documentario, dove la sua breve ma incisiva apparizione come esperto d’arte aggiunge un tono di raffinata (e ironica) competenza all’isteria giovanile del racconto.

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